Data: 20/01/2025
Autore: Daniele Montorsi
Nel nostro precedente scritto, abbiamo ricordato quali sono i sintomi più comuni che svelano la presenza in noi di uno stress traumatico; ma dopo averlo individuato, come è possibile gestirlo e superarlo per ritornare ad una quotidianità di vita?
Per volontari-soccorritori come noi, sarebbe importante una specifica formazione da fare in “tempo di pace”, lavorando sul lato della prevenzione, attraverso l’apprendimento e la familiarizzazione con tecniche di rilassamento (molto utili sono gli esercizi di respirazione lenti e profondi), la condivisione in gruppo di esperienze vissute da altri ed infine provando a rispondere alla domanda “perché faccio il volontario?”. Infatti, i rischi che corriamo, sono legati anche alle motivazioni che ci hanno portato a questa scelta.
Le risposte possono essere tante e di ispirazione diversa.
Tutte queste risposte hanno in sé una componente di insidia, perché se non si riceve l'atteso riconoscimento o non si realizza il desiderato aumento delle proprie competenze o l’allargamento della propria cerchia di relazioni umane, può subentrare la frustrazione e questa non passa in modo indolore.
Durante l’attività operativa poi, è importante concedersi delle pause, rispettare i propri ritmi e le mansioni affidateci senza scivolare nel “voler strafare”, osservare i turni, parlare con i compagni, cercare di mantenere la mente concentrata su “qui e ora”, mantenere i ritmi sonno-veglia soprattutto se l’attività dura per un tempo lungo. Anche affinare e praticare l’umorismo è una buona strategia soprattutto se dobbiamo gestire “l’attesa” cioè quei momenti morti, frequenti un po’ su tutti gli scenari operativi quando, la mancanza di disposizioni su dove andare e cosa fare, ci lascia come sospesi in un vuoto che fatichiamo a comprendere ed accettare, spinti come siamo dal desiderio di renderci utili. Da qui, un crescente nervosismo ed insofferenza che può sfociare nel rimpianto di non essere rimasti a casa e nella voglia di mollare tutto e andare via. Tutte reazioni con le quali possiamo mettere in pericolo noi e la nostra squadra.
Infine, terminata l’emergenza, è importante ritagliarci un tempo personale per stabilizzare in noi, quanto di emozionale ed esperienziale abbiamo introitato. Cosi come, prima di entrare in casa, ci svestiamo della divisa per non portare dentro il fango, allo stesso modo e simbolicamente, dobbiamo iniziare a “spogliarci” di tutto ciò che durante il servizio ha colpito particolarmente la nostra sensibilità. Utile, a questo scopo, è il viaggio di rientro che può diventare l’occasione per iniziare il debriefing che non deve essere soltanto verifica della bontà ed efficacia dell’intervento della nostra squadra, ma anche “messa in comune” di “come abbiamo vissuto” lo stesso.
Nel lavoro in emergenza infatti, le dinamiche di gruppo contano di più di quelle dei singoli soccorritori perché, non dimentichiamolo mai, la relazione è cura!
Dunque è importante che i componenti della squadra e il caposquadra per primo, sappiano creare e vivere un clima di reciproco ascolto e di accoglienza delle fragilità di ciascuno, accettando anche quelle manifestazioni di disagio e paura, che potrebbero apparire eccessive o incomprendibili, senza giudicare mai, ma cercando anzi, di capire come aiutare il compagno in particolare difficoltà e più in generale, tutti i componenti la squadra, a riprendere una necessaria quotidianità.
La consapevolezza e l’accettazione delle nostre fragilità, sono la nostra forza perché attraverso una più profonda conoscenza di noi stessi, ci rendono capaci di difenderci meglio, aumentando la nostra resilienza, cioè la nostra capacità di trasformare un’esperienza dolorosa in una nuova e preziosa occasione di crescita e rinascita.